A voce scritta di Roberto Uggeri: “AMERICAN SNIPER”

Roberto-Uggeri
“Restiamo umani”. Dopo aver visto un’orgia di sangue e violenza, a ribadire una volta di più, l’idiozia della guerra, è cosa spontanea citare Vittorio Arrigoni, giornalista e attivista rapito e ucciso a Gaza dai terroristi islamici.
Lo scenario nel quale è ambientata l’ultima fatica di Clint Eastwood è però l’Iraq, ma la sostanza non cambia: il primo pensiero che evoca è una gran voglia di pace.
Duro e senza sconti. Ruvido, ispido, spietato come un diretto in pieno volto, American Sniper si dichiara storia realmente accaduta all’ultima scena. Dettaglio che rende ancora più spaventose le immagini appena viste sullo schermo.
Ben inteso, di film sui conflitti e sulla barbarie umana ne sono stati fatti sin troppi. Questo però è uno dei meglio riusciti. Malgrado grondi retorica incalzate da ogni singolo fotogramma, scava nell’animo dello spettatore sgomento. Suscita amarissime e penose riflessioni.
Storia di Chris Kyle, cecchino letale dei Navy Seals. Forgiato dal padre, nel profondo Texas, con un’educazione che pare dura ma giusta. Nel rispetto, tutto americano, di Dio, Patria e famiglia.
Un ragazzo che si prende cura del fratello e lo protegge dalle angherie dei più grandi.
Un giovane che sogna di diventare cowboy e girare il paese da un rodeo all’altro.
Un uomo che improvvisamente sente il desiderio di fare qualcosa in più: difendere il suo paese.
Si arruola e, dopo l’11 settembre, parte per il fronte.
La guerra lo cambia. Così come cambia chiunque: un conto è andare a caccia con il padre o sparare alle sagome nelle esercitazioni, un altro trovarsi di fronte a persone “con la divisa di un altro colore”, per dirla con De André.
La morte, vista e provocata, può dare dipendenza.
Malgrado una giovane moglie. Malgrado dei figli già nati e in arrivo. Malgrado tutto, la sete di vendetta e la sensazione di onnipotenza possono essere inebrianti anche per chi parte con i migliori propositi.
Il rischio è quello di finire sul baratro della follia. “Il senso di colpa” per non aver fatto abbastanza per salvare i compagni sul campo può diventare un peso capace di annichilire.
Quando tutto sembra smarrito, però, ecco che gli viene in soccorso la consapevolezza di poter essere utile a chi è scampato per miracolo alla ferocia, a chi porterà per sempre i segni indelebili della brutalità sulla carne offesa.
L’impegno con uomini che hanno visto e vissuto il suo stesso trauma restituirà un marito e un padre alla famiglia.
Ma la vita può essere una spietata sciarada. Quando il pericolo e il peggio sembrano passati, Chris Kyle, troverà la morte nel più banale e assurdo dei modi: ucciso per mano di un reduce che stava cercando di aiutare.
Sull’epilogo torna alla mente la “lezione morale” che il padre di Chris impartisce a tavola ai figli: “il mondo si divide in pecore, lupi e cani da pastore; le pecore sono quelle che temono e stanno chiuse nel recinto, i lupi sono quelli che le aggrediscono e i cani da pastore quelli che provano l’insopprimibile desiderio di proteggere le pecore – chiosando – in questa famiglia non alleviamo né pecore né lupi”.
Scorrono i titoli di coda sulle immagini di repertorio di un’America che si ferma e si commuove al passaggio del feretro di un decorato in battaglia. Le note sono quelle struggenti del silenzio militare.
Mentre sovviene una quarta strada possibile: meglio crescere esseri umani.